08 maggio 2021
La domanda che in definitiva ispira l’ultimo libro di Andrea Riccardi (La
Chiesa brucia? Bari, Laterza, 2021, pagine 248, euro 20) è di quelle che
solo a formularle ti lasciano col fiato sospeso e un po’ di angoscia: la
crisi della Chiesa ha già raggiunto o meno un suo punto di
irreversibilità? Che i “parametri vitali” (calo delle ordinazioni, della
frequentazione ai sacramenti, delle scelte di vita religiosa, ecc.) fossero
in grave affanno era cosa nota, ma la situazione è così grave?
Sicuramente lo storm pandemico che ha investito il mondo sta
mostrando con virulenza tutte le fragilità preesistenti nella Chiesa.
Per questo la puntuale e dettagliata panoramica della crisi della Chiesa
in Occidente che Andrea Riccardi svolge, mescolando insieme la
precisione dello storico, l’interpretazione analitica del sociologo e la
passione dell’ecclesiologo, costituisce oggi la fonte documentaria più
completa e sicura per addentrarsi in un dibattito che è invece troppo
spesso caratterizzato dalla superficialità.
«So bene — ci dice Riccardi — che la domanda che pongo nelle pagine
iniziali del libro può risultare angosciante per molti. E aggiungo anche,
in tutta onestà, che non ho la risposta in tasca. Ma l’ho voluta porre,
perché credo che l’urgenza più grande sia oggi tornare a pensare, ridare
dignità al pensiero e a un dibattito pensoso. Aprire le finestre,
superando le polarizzazioni basate sui preconcetti e le attitudini
difensive. Non possiamo pensare che sia sufficiente solo rabberciare il
presente o gestire le istituzioni. Quando dico che occorre tornare a
pensare, voglio dire che dobbiamo tornare ad avere una visione. Visione
del mondo, della storia, visione della Chiesa in un mondo che è
cambiato rapidamente come non mai dall’inizio della storia umana.
«“Convocate il pensiero” diceva Paolo VI, “Convocate le menti”
sollecitava Dossetti: ecco quello che serve, riaprire un dibattito alto, di
idee e visioni. Apprezzo da questo punto di vista il dibattito che avete
avviato dalle pagine de L’Osservatore Romano. Il problema non è il “sì”
o il “ni” a un Sinodo della Chiesa italiana, ma la generazione di pensieri
lunghi che ispirino un cammino di ripensamento. Però, confesso, non
vedo ancora tutto questo all’orizzonte. E poi quale Sinodo? Se qualcuno
pensa a un adempimento di routine, a una passerella autoreferenziale,
che non coinvolge attivamente tutto il popolo di Dio, le dico
provocatoriamente: meglio lasciar perdere. C’è bisogno di sentire il
“fuoco” della crisi per cominciare un cammino di riflessione sul futuro
e di lettura della realtà in cui viviamo. Non si generano idee e
indicazioni per il futuro, se prima non si capisce in profondità. Mai
come oggi è il tempo dell’ascolto e dell’incontro gli uni con gli altri.
«Vede, io credo — e ne scrivo diffusamente nel libro — che dobbiamo
superare uno stile che è comunque prevalso e che io chiamo neotridentinismo. Attenzione, non mi riferisco tanto ai contenuti, quanto
appunto allo stile. Uno stile tutto proteso alla gestione delle istituzioni,
alla ridefinizione di certezze — magari più “avanzate” ma sempre
certezze —, ma che contraddice la quintessenza del profilo cristiano:
essere nella storia. Anche la vicenda che ricordo in apertura del libro,
l’immagine tragica e terribile della cattedrale di Notre Dame in fiamme,
va in questo senso: scuotere e provocare partendo dalla realtà di un
declino, di fronte a cui non abbiamo perso la speranza, ma dobbiamo
camminare molto con fede, intelligenza, molteplicità d’incontri».
Riccardi introduce questo stile già nel nostro colloquio, centellina ogni
parola con attenzione, lasciando trapelare però un’accesa passione
interiore: per una volta lo storico è dentro una storia che è anche la sua
personale e che ha vissuto in un ruolo non secondario. «Quando parlo
di neo-tridentinismo penso a quel bisogno di sicurezza intorno al tema
del “come si fa la Chiesa”, alla ricerca di funzionalità che non c’è e non
può esserci, un bisogno che però ha permeato tanti sinodi e testi
pastorali, tanta pastorale, e generato tanta, troppa, attenzione alle
forme e alle strutture. Io penso che il problema sia radicalmente
diverso. Dopo la secolarizzazione, è la globalizzazione che sta
cambiando tutti. Eppure una domanda di religiosità comunque c’è,
seppure in forme impreviste e che non riusciamo a leggere ed
intercettare se abbiamo un approccio scontato».
Continua: «Credo che l’origine della crisi che affligge la Chiesa possa
essere rintracciata piuttosto in un paradosso. E cioè che l’istituzione
più globale che esiste al mondo alla fin fine fatica a reggere l’impatto
con la globalizzazione. Siamo rimasti spaesati davanti ai cambiamenti
profondi — mi lasci dire, antropologici — che la globalizzazione ha
portato alle nostre vite. Le faccio un esempio: la velocizzazione del
tempo. La Chiesa è ancorata nei suoi ritmi, a una concezione del tempo
che non è quella del digitale, ma forse neanche quella dell’era
industriale. La velocità delle relazioni privilegia un piano emozionale
che per esempio i movimenti neo protestanti sanno meglio intercettare.
Sono gli unici a essere in rapida crescita, mentre le tradizioni luterane
o anglicane del nord Europa seguono la nostra stessa crisi. Movimenti
per ora concentrati prevalentemente nel sud del mondo, ma che in
ragione delle migrazioni non tarderanno a sbarcare anche alle nostre
latitudini».
Prof. Riccardi, parlavamo in apertura della crisi abissale dei “parametri
vitali”: la straordinaria sintonia di Papa Francesco col mondo non si
traduce in una maggiore robustezza delle istituzioni ecclesiali. In tutto il
mondo occidentale, non solo in Italia, la Chiesa appare perdere
rilevanza.
Ecco, lei ha usato un termine per me importante, la “rilevanza” e
all’opposto l’irrilevanza; ne parlo diffusamente nel libro. La “rilevanza”
non è potere, è piuttosto il rilievo del Vangelo. Rilevanti si diventa non
in virtù di un concordato. Rilevanza è mettere al centro gli irrilevanti,
che è poi il messaggio centrale di Papa Francesco. Vede, quando Papa
Benedetto parlò di una Chiesa di minoranza creativa, le sue parole
furono da alcuni interpretate malamente, nel senso di una Chiesa
protesa alla preservazione e difesa di se stessa. Papa Francesco ha
parlato di Chiesa di popolo, non nel senso delle dimensioni. Le faccio
un esempio che ritengo molto significativo. Il viaggio di Papa Francesco
in Iraq, che passerà alla storia. Una Chiesa piccola, minoritaria,
martoriata e minacciata, quella irachena, che Papa Francesco e il
Patriarca Sako, hanno saputo con coraggio inusitato far diventare il
vettore di un messaggio di pace a tutto il mondo islamico. Un impatto
enorme, religioso ma anche politico. Questo significa essere “sale della
terra”, una piccola minoranza che sa essere guida di grandi masse.
Minoritari ma non residuali. Minoritari ma profetici. Orgogliosi ma non
identitari. Anche Gesù — diceva il cardinale Martini — era orgoglioso
di dichiararsi Figlio di Dio. Questa è una via indicata a tutte le Chiese
del mondo. Questa è evangelizzazione.
A proposito di evangelizzazione…
Guardi, di evangelizzazione sono più di 50 anni che ne parliamo, forse
sarebbe il caso di fare un bilancio. Ne parlo nel mio libro. A me sembra
che le parole che Francesco rivolse alla Chiesa italiana nel 2015 a
Firenze siano state solo molto parzialmente realizzate. Ricominciamo a
pensare intanto ai soggetti dell’evangelizzazione, il Papa è chiaro: sono
i poveri che evangelizzano noi, non il contrario. Ma anche nella
relazione con i poveri è prevalso quello che chiamo neo-tridentinismo,
questo mix di efficientismo e perfezionismo che riduce la carità ad
attività istituzionale, scordando l’identificazione del povero in Cristo di
Matteo 25. Non possiamo pensare che l’evangelizzazione sia compito
prerogativo di un clero, sempre più piccolo e sempre più vecchio. C’è,
ad esempio, il grande problema delle donne. Io non voglio fare un
femminismo di facciata, come pure va di moda, ma registro che nel
mondo c’è stata una rivoluzione epocale che nella Chiesa è stata poco
ascoltata. Peraltro in un’istituzione la cui base è prevalentemente
femminile: senza le donne tante parrocchie non sopravvivrebbero. Il
punto non è quello di rivendicare qualche spazio o ruolo in più; il punto
è cominciare a pensare veramente ad una Chiesa che è luogo di
comunione tra uomini e donne.
Davanti a questo abisso di problemi c’è anche il paradosso di un tasso
alto di litigiosità tra cattolici.
Non è affatto un paradosso, è tipico di ogni realtà in declino litigare.
Intanto c’è da dire che la polarizzazione è purtroppo la forma
comunicativa semplificata tipica del tempo digitale. Semmai il
paradosso è che anni fa, al termine dell’esperienza della Dc, si
predicava che i cattolici dovessero influenzare, e all’occasione dividere,
i due poli della politica; è finita invece che è stata la politica a dividere
i cattolici. Questa litigiosità non è pluralismo ma radicalizzazione
mediatica di una Chiesa introversa. Occorre ristabilire il gusto del
dialogo al posto del litigio. Ma questo può darsi solo — lo ripeto —
attraverso la generazione di idee nuove e di una rinascita di passione
nella Chiesa. Per esempio che dice la Chiesa in Italia oggi a proposito
del terribile panorama sociale che emerge dopo la Pandemia?
Nel suo libro lei fa anche riferimento a un progressivo decadimento
culturale che riguarda anche il fenomeno religioso.
Questo non è un problema solo nostro: tutte le religioni si stanno
deculturizzando. Il neo-protestantesimo di cui parlavamo prima, ad
esempio, fa piuttosto leva sulla dimensione emozionale anziché
culturale. È un problema serio. Giovanni Paolo II diceva che se la fede
non diventa cultura è vissuta a metà, non vale. La stessa espressione
si ritrova nel cardinale Bergoglio. E Mircea Eliade ammoniva che l’uomo
contemporaneo si avvicina al fatto religioso più attraverso la cultura
che la natura. La Chiesa deve prestare attenzione anche al sentimento
religioso del popolo, perché anch’esso è espressione culturale; non va
sottovalutato.
Ma nel mio libro accanto alla questione del depauperamento culturale
pongo anche un’altra questione che ritengo molto importante: quella
della perdita della memoria. Un tema che mi è sensibile non solo per la
mia vocazione di storico. Le mutazioni antropologiche intervenute negli
ultimi decenni hanno portato a un affievolimento delle modalità di
trasmissione della memoria nell’ambito familiare. La mia generazione,
per esempio, non ha vissuto la guerra ma è come se l’avesse vissuta,
per come e quanto ci è stata raccontata. Questo alla generazione
presente manca. Il passato è rimosso. La fonte originaria di
trasmissione della fede, della dimensione religiosa, del rito, per le
generazioni passate è sempre stata la memoria. Ma questa catena è
oggi saltata. E la conoscenza dei fatti religiosi che avviene fuori del
canale della memoria è solo didattica, non ha calore, non parla al cuore,
e in quanto tale non è destinata a durare nel tempo. Non ci abbiamo
ancora riflettuto abbastanza ma credo che questo, della perdita della
trasmissione della memoria sia un elemento decisivo per comprendere
alcune cause della crisi.
Questo accade perché gli anziani non parlano più o perché non sono più
ascoltati?
Io credo che gli anziani oggi siano l’espressione più immediata di quella
che Francesco chiama la cultura dello “scarto”. La silente strage di
anziani che si è consumata durante i primi mesi della pandemia è una
pagina straziante e scandalosa della nostra storia. E devo dirle che mi
sarei aspettato al proposito una parola più forte da parte della Chiesa
italiana. D’altronde tutta la storia di quei mesi da un punto di vista
ecclesiale è molto complessa.
Insomma, c’è una risposta alla domanda angosciante da cui siamo
partiti? La crisi della Chiesa ha già toccato il suo punto di non-ritorno?
Nel libro non ho la presunzione di voler dare una risposta.
Sinceramente non l’ho. L’Italia sotto questo aspetto è cambiata molto
negli ultimi anni. Da un lato vanno spegnendosi gli ultimi focolai di
anticattolicesimo militante figlio delle ideologie, ma dall’altro lato si è
ormai diffusa l’idea che si può vivere senza Dio. Però io registro anche
l’emersione sempre più forte di una domanda di senso, come
conseguenza dell’alienazione del vivere. Noi dovremmo ripartire da qui.
Anzi la pandemia ha aperto un nuovo importante fronte. Perché
accanto alla domanda di senso del vivere ha posto al conscio e
all’inconscio la domanda del senso della morte. Se alla domanda di
senso della vita possiamo dare come sola risposta possibile l’unità del
genere umano, alla domanda sul senso della morte dobbiamo essere
consapevoli di essere gli unici portatori di una risposta plausibile:
l’evento pasquale, la vita oltre la morte. Lo sguardo d’insieme del mio
libro è preoccupato ma non pessimista. Perché è lo Spirito che suscita
queste crescenti domande. Per questo non esito a dire che la Chiesa
brucia ma questo è il tempo della Chiesa.
di Roberto Cetera