martedì, 30 Maggio 2023
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Padre Zanotelli: “Niente santini per lui: il mio amico Don Tonino Bello fu un profeta”

“Io sono le persone che ho incontrato. Sembra tutto un caso, ma poi scopri che nulla è a caso”, ha scritto una volta padre Alex Zanotelli il missionario comboniano, il guastatore, il pacifista. Lui e don Tonino Bello, in una gara di atletica, sarebbero i maratoneti che si passano il testimone, non una ma due volte. Pressoché coetanei, nella vita sono stati sodali, connessi con il segnale della pace agognata, mai domi, la maggior parte del tempo scomodi.

Padre Zanotelli, quando vi siete conosciuti?
“Sono stato per un anno e mezzo a Lecce dai Comboniani e spesso venivo invitato per parlare ai preti durante ritiri organizzati dal vescovo di Ugento. Sarà stato nel ’75, nel ’76, Tonino a quei tempi si occupava dei seminaristi. Io non mi ricordavo di lui, ma un frate una volta mi disse che Tonino mi ascoltava sempre con tanta attenzione e prendeva nota di quel che dicevo. Poi fui chiamato a dirigere la nostra rivista, Nigrizia, mi trasferii a Verona e lasciai la Puglia”.

Quando vi siete rincontrati, allora?
“Nell’82, era appena diventato vescovo, e mi scrisse questo bigliettino piccolo, era breve e diceva più o meno così, “caro padre Alex, tu non ti ricorderai più di me, ma io non ti ho mai dimenticato. Sono stato nominato vescovo di Molfetta. E, sai non ho dimenticato quegli incontri, quando venivi in seminario e rubavi i miei mandarini”. Dall’85 cominciò a scrivere per Nigrizia, aveva una pagina che conteneva i suoi pensieri, uno dei primi fu proprio quello dedicato al “Caro marocchino”. Da lì si creò la vera connessione, del resto, Nigrizia aveva assunto una sua posizione ben precisa sul problema delle armi”.

Cosa che le causò non pochi problemi.
“Scrissi un editoriale che criticava aspramente la legge sulla cooperazione, in base alla quale l’Italia si impegnava a dare 3/4 mila miliardi di lire per la fame in Africa, ma con l’altra mano vendeva armi a quegli stessi Paesi che doveva aiutare. Allora fu tutto molto chiaro anche a Tonino che, diventato presidente nazionale di Pax Christi, mi invitò a parlare al raduno che aveva organizzato a Brescia, tra l’altro uno dei centri che produceva più armi. Feci un attacco durissimo, e fui messo sotto inchiesta della Procura di Brescia. Tonino, che veniva dalla nonviolenza, fu lì che cominciò a maturare nettamente la sua scelta. E quando, nell’87, con pressioni soprattutto di Spadolini sul Vaticano, venni silurato da Nigrizia e decisi di togliermi dai piedi andando in Africa, Tonino allora si assunse tutta questa lotta sulle sue spalle. È andato avanti lui e ha pagato tantissimo”.
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Fece a quei tempi anche gesti molto coraggiosi nei suoi confronti.
“Certo. Prima di partire, avevo finito un libro, La morte promessa, e gli chiesi di scrivere la prefazione, il mio editore disse, “ma no, è un vescovo non può fartela, soprattutto adesso che sei sotto attacco”. E, invece, lo fece, un testo che non mi aspettavo, s’intitolava “La Pasqua in agguato”, ed è uno dei suoi più belli. Diceva, tra le altre cose, che nel mio libro si leggeva “ardente un grande amore per la Chiesa … sicché a nessuno è lecito leggere sotto la sassaiola delle sue provocazioni, risentimenti contro la ‘madre’, sconfessioni del ‘grembo’, ricusazione di tenerezze verso l’antico ‘volto’ di lei””.

Poi, lei partì missionario in Africa, ma don Tonino di certo non la dimenticò.
“Per niente. A un certo punto si era messo in testa di fare questa rivista, Mosaico di pace, per continuare la lotta sulle armi, e mi chiese di dirigerla. Io gli dissi di no, ero lontano, avevo tanti problemi per la testa, ma lui mi rispose che non accettava il mio rifiuto: a quel punto non potevo più dirgli di no, e anche questo Tonino l’ha pagato tantissimo. Una volta monsignor Bettazzi mi disse che il tumore allo stomaco gli era venuto da tutta questa opposizione ricevuta per la questione delle armi; lui aveva sempre il sorriso sulle labbra ma questa cosa gli macinava nello stomaco. Nel dicembre dell’87, prima di partire per l’Africa, il segretario generale di Pax Christi mi chiamò e mi invitò ad andare a Reggio Calabria per la Marcia della pace, mi fece capire che Tonino affrontava un momento brutto e che dovevo esserci. Quando finimmo e lui stava per tornarsene a Molfetta con l’autobus, ci parlammo, stava male dentro. Ma che succede, Tonino? E lui mi confessò che soffriva a sentirsi trattato certe volte come un estraneo nella Chiesa a cui teneva così tanto. È stata l’ultima volta che l’ho visto di persona e sono sempre stato grato al Signore di avermi fatto incontrare una figura così bella”.

Da qualche settimana don Tonino è venerabile, ci auguriamo che diventi santo.
“L’importante è che non se ne faccia un santino e che si ricordi sempre quanto ha sofferto e quante volte è stato rifiutato dagli stessi vescovi, che tante diocesi abbiano il coraggio di chiedere perdono. Altrimenti con il santino va a finire che se ne fanno dimenticare la lotta e la sofferenza. Ricordo ancora le sue parole: “Noi non siamo notai dello status quo, noi siamo sentinelle che annunciano tempi nuovi”. Ricordiamocelo a Sarajevo, ricordiamoci quanta fatica ha fatto per far comprendere che la soluzione non era la guerra ma il dialogo”.

Ancora oggi.
“Oggi le cose sono anche peggiori, quei discorsi non si possono più fare, ti prendono per pazzo. Oggi in Europa c’è sentore di guerra. In Ucraina scoppierà qualcosa, non c’è verso. E in Italia, si spendono 30 miliardi l’anno in armi, soldi tolti a scuole e a ospedali: follia. Chi parla più di queste cose? Siamo rimasti in quattro. Tonino era stato profetico, aveva visto anche un nesso tra armi e ambiente, sulla Murgia. Quello che ha rappresentato deve venir fuori quando lo fanno santo, sarà il momento di dire le cose con ancora più forza”.

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